mercoledì 21 settembre 2011

WHAT A ... PET SOCIETY!


Welcome in Pet Society
Liberamente ispirato al gioco della Playfish su Facebook


Ho sentito che puoi allargare di circa il venti percento la tua casa.

Me l’ ha detto il sindaco in persona, facendo vibrare i suoi baffoni bianchi e il cappello strambo.
Aveva la faccia sorridente e un modo tutto suo di far dondolare il capo. Non sapevo se credergli o no, ma attorno a me vedevo le case ampliarsi come spugne gonfie d’acqua. Durante la mia passeggiata mattutina tra gli alberi e i peschi rigogliosi, mi sono fermato davanti casa della Signorina Calimera. L’aveva anche lei ingrandita e oltretutto aveva cambiato colore alla facciata.
Ne approfittai per andarla a trovare.
Calimera se ne stava stanca e annoiata in salotto, ebete a sospirare in compagnia solo di due mosche che le gironzolavano vicino alle tempie. La salutai con un abbraccio affettuoso, poi accesi la radio - un modello marrone d’antiquariato - e cercai di farla sorridere, ancheggiando un po’ a ritmo di musica. Però dopo le mie danze, si ingobbì e procedette a sistemare casa, spostando da un capo all’altro della stanza cose inutili ma carine.
Vidi che non aveva mangiato in maniera adeguata, allora le preparai un bel pezzo di formaggio e una pera. Ingoiò rumorosamente, e un sorriso le comparve sul gentil volto.
E poi…
Quel sorriso.
Non ce la facevo.
Uscii .
Presi una boccata d’aria.
Rientrai e le zompai addosso.
La baciai.
E lei ricambiò.
La corteggiai per giorni.
Baci bollenti ogni volta che andavo a trovarla.
E regali: fiori e braccialetti, dolcetti e vestiti da sera all’ultima moda.
Ci sfinivamo di baci.
E poi un giorno, dopo un bacio romantico, la accarezzai proprio lì, dove piace di più ad una donna.
Godeva. Oh, come godeva.
Faceva le fusa come una gattina lussuriosa.
Muovevo la mano circolarmente. Le piaceva. Sussultava.
Andammo in camera: una bella stanza con una raffinata chaise longue bianca e un mobile da toeletta nero, il letto a baldacchino di gusto romantico e un vaso di iris appena colte sul davanzale. Candele dappertutto rivelavano il suo lato intrigante e sofisticato.
Salì sul letto, la mia micia dagli occhi verdi.
E si appisolò!
Dopo tutti i regali che le avevo fatto!
Ne ero offeso.
Corsi fuori.
Come poteva essere così insensibile!
Come poteva essere così… così… puttana!
Rientrai.
La menai.
Ma mi rise in faccia.
La troia.
E poi corse via.
Non mi voleva più.
Volevo ancora picchiarla.
Sublimai, e me ne andai.
Era una signora che aveva un ruolo influente nel quartiere, aveva la seconda casa più grande nella via. La prima era la mia, anche se stavo vicino allo stadio, in una zona trafficata e rumorosa: dagli spalti proveniva sempre un gran chiasso e un puzzo nauseante di bucce di banana marce.
L’avevo conosciuta al bar mesi fa. Mi ricordo che indossava un kimono rosa tenue.
Che rabbia!
Andai allo stadio.
Quando sono nervoso mi piace scommettere.
Puntai una bella somma su un tale che si chiamava Gnappo. Mi dava fiducia.
E persi.
Uscii a gironzolare svogliato per le strade del quartiere, quando mi trovai davanti al bar.
Entrai.
Lì incontrai Lucilla.
Era bella Lucilla.
Aveva due occhioni neri, un sorriso malizioso e un vestitino di fattura indiana verde e rosso.
Non ci pensai due volte. Ero disperato.
Mi avvicinai al suo tavolo. Era con altre persone, ma non mi importava. Non avevo voglia di tornare a casa da solo.
Andammo da lei.
Aveva una casa piccola, quattro stanze appena e una brutta carta da parati verde abbinata a sciatti divani arancione.
Neanche una radio, solo un televisore spento e vecchio.
La menai.
Ma anche lei rise. Mi accorsi che era una bimba, quattordici anni appena. Io ormai trentasei.
Correva avanti e indietro per la sua misera casetta; mi fece vedere la sua nuova lampada in stile anni settanta e un pupazzo di un gufo dagli occhi sbarrati.
“Non me ne frega un cazzo! Ho voglia solo di scopare!” mi venne da dirle. Ma tacqui. Non avrebbe capito.
Accesi la tv e la lasciai lì, intontita a guardarsi un quiz scemo su quanto grande hai il cervello.
Mi avviai verso casa.
Incontrai Birilla davanti alla banca. Ma non la salutai.
Entrai in casa che non mi accorsi di puzzare.
Andai in bagno e prima di infilarmi in vasca, mollai una cagata liberatoria,che rimase appollaiata sul water ballonzolante. La fotografai pure.
Mi lavai accuratamente. Mi spazzolai i capelli.
Mi rilassai.
Pensai a Calimera.
Al suo kimono.
Ai suoi occhioni verdi.
Mi toccai.
Facevo le fusa.
Finché schizzai qualcosa di giallo. Il mio seme rassomigliava a un grosso smile sganasciante.
Calimera.
Le preparai un regalo da portarle l’indomani.
La merda che avevo appena cagato e un messaggio: “Ti amo Cali!”.
So che avrebbe apprezzato.

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